Prefazione alla Seconda Edizione del Romanzo Il Castello di Otranto di Horace Walpole

Prefazione alla Seconda Edizione del Romanzo




Scuola d'Italiano per Stranieri ad Otranto

Prefazione alla Seconda Edizione

L’accoglienza favorevole che il pubblico ha riservato a questa breve opera impone all’autore di spiegare i motivi per i quali l'ha composta. Prima di passare a esporli, e giusto che egli chieda perdono ai suoi lettori, per aver loro proposto il suo lavoro sotto le mentite spoglie di traduttore. Dal momento che la scarsa fiducia nelle sue possibilità e la novità del tentativo state le sole ragioni che Io hanno indotto a camuffarsi, spera di poter essere perdonato. Egli ha affidato la sua opera al giudizio imparziale del pubblico, determinato a lasciarla perire nell’oscurità qualora questo fosse stato negativo, non intendendo riconoscere la paternità di una simile bagattella, se giudici più autorevoli non avessero sentenziato che avrebbe potuto attribuirsela senza vergogna.
Si è trattato di un tentativo di fondere insieme due generi di romanzo: l'antico e il moderno. Nel primo tutto era immaginario e inverosimile, nel secondo si è sempre cercato, talvolta riuscendoci, di imitare con successo la natura. L'invenzione non e del tutto assente, ma la stretta aderenza alla realtà ha posto un argine alle grandi risorse dell’immaginazione. Se nei romanzi moderni la Natura ha relegato ai margini l’immaginazione, lo ha fatto per vendicarsi, essendo stata totalmente esclusa dai vecchi romanzi. Le azioni, i sentimenti, le conversazioni degli eroi e delle eroine dei tempi antichi erano innaturali quanto i meccanismi usati per farli agire.
L’autore delle pagine che seguono ha ritenuto possibile conciliare i due generi. Desideroso di lasciare il potere dell'immaginazione libero di spaziare nelle sconfinate regioni dell’invenzione, e di creare perciò situazioni più interessanti, ha voluto dirigere i personaggi della sua storia secondo le regole della verosimiglianza. In altri termini ha voluto farli pensare, parlare e agire come avrebbero fatto uomini e donne comuni, messi in situazioni straordinarie. Ha osservato che in tutti gli scritti ispirati, i personaggi che beneficiano dei miracoli e sono testimoni dei più straordinari fenomeni, non perdono mai il loro lato umano, mentre nelle storie fantastiche, un evento improbabile e sempre accompagnato da un dialogo assurdo. I personaggi sembrano perdere le loro facoltà quando le leggi della natura vengono meno. Avendo il pubblico apprezzato il tentativo, l'autore deve dedurne di non essere stato del tutto inadeguato al suo compito: se il sentiero che ha esplorato ha spianato la strada a uomini di più grande talento, riconoscerà con piacere e modestia che il progetto era passibile di ricevere una veste migliore di quella con cui l’hanno abbigliato la sua immaginazione o la sua capacità di orchestrare le passioni.
Riguardo al comportamento dei domestici, al quale ho fatto riferimento nella precedente prefazione, desidererei aggiungere qualche parola. La semplicità del loro comportamento, che tende a far sorridere e che non sembrerebbe adatta al tipo di opera, non solo non mi è parsa inopportuna ma è stata volutamente resa in quel modo. La mia regola è stata la natura. Per quanto gravi, importanti o anche malinconiche le emozioni di principi ed eroi possano essere, non imprimono mai uguali sensazioni nei loro domestici: perlomeno questi ultimi non esprimono, o non dovrebbero esprimere, le proprie passioni nello stesso solenne tono. A mio modesto avviso, il contrasto tra il sublime degli uni e la naïveté degli altri accentua la pateticità dei primi. La grande impazienza che il lettore avverte, mentre i rozzi motteggi di personaggi volgari ritardano la conoscenza dell’importante catastrofe che egli si aspetta, forse accresce l'impatto dell’evento che ne segue, e certamente il fatto che si provi tale impazienza dimostra che si è riusciti a destare l'interesse per quell'accadimento. Mi sono ispirato per questo, non alla mia opinione, ma a un'autorità ben più alta. E’ stato quel grande maestro della natura che fu Shakespeare il modello che ho imitato. Le tragedie di Amleto e Giulio Cesare non perderebbero forse una considerevole parte del loro spirito e bellezza se l'umorismo dei becchini, le follie di Polonio e le goffe facezie dei cittadini romani fossero omessi o rivestiti di eroismo? L’eloquenza di Antonio e la nobile e impassibile orazione di Bruto non sono forse esaltate dalle rozze esclamazioni provenienti dalla bocca dei loro ascoltatori? Questi tocchi ricordano lo scultore greco che, dovendo raffigurare in un sigillo un colosso, pose al suo fianco un giovinetto alto come il suo pollice.
No, dice Voltaire nella sua edizione di Corneille, questa commistione di buffoneria e solennità è intollerabile. Voltaire è un genio ma non della grandezza di Shakespeare. Senza ricorrere ad autorità discutibili, mi appello allo stesso Voltaire. Non mi avvarrò dei suoi precedenti encomi al nostro grande poeta, benché il critico francese abbia tradotto due volte lo stesso discorso dell’Amleto, qualche anno fa con ammirazione, più tardi deridendolo; e mi spiace constatare come i suoi giudizi diventino più deboli proprio quando dovrebbero essere giunti a completa maturazione. Userò invece le sue stesse parole, pronunciate sul teatro, quando non pensava ne a encomiare né a criticare la pratica di Shakespeare, quando dunque era ancora imparziale. Nella prefazione al suo Enfant prodigue, quella bellissima opera a cui va tutta la mia ammirazione e che sono sicuro, dovessi vivere ancora vent’anni, non tenterò mai di ridicolizzare, Voltaire usa queste parole riferendosi alla commedia (ma esse si adattano altrettanto bene alla tragedia, se la tragedia è, come dovrebbe essere, una rappresentazione della vita umana; e non mi riesce di capire perché l'occasionale leggerezza dovrebbe essere bandita dalla scena tragica più di quanto la patetica serietà dovrebbe esserlo da quella comica). On y voit un melange de serieux et de plaisanterie, de comique et de touchant; souvent même une seule avanture produit tous ces contrastes. Rien n'est si commun qu’une maison dans laquelle un pere gronde, une fille occupée de sa passion pleure; le fils se moque des deux, et quelques parens prennent part differemment à la scene, &c. Nous n'inferons pas de là que toute comedie doive avoir des scenes de bouffonnerie et des scenes at tendrissantes: il y a beaucoup de tres bonnes pieces où il ne regne que de la gayeté; d’autres toutes serieuses; d'autres melangées: d'autres ou l’attendrissement va jusques aux larmes: il ne faut donner l'exclusion a aucun genre: et si l'on me demandoit, quel genre est le meilleur je repondrois, celui qui est le mieux traité. Sicuramente se una commedia può essere toute serieuse, la tragedia può talvolta, sobriamente, indulgere a un sorriso. Chi lo vieterà? Può forse il critico, che per autodifesa afferma che nessun genere dovrebbe essere escluso dalla commedia, dettare le regole a Shakespeare?
So che la prefazione da cui ho citato questi passaggi non reca la firma di Monsieur de Voltaire ma del suo editore: ma chi dubita che editore e autore non fossero la stessa persona? O dov’è l’editore che si è così felicemente impossessato dello stile del suo autore e della brillante capacità di argomentare di questi? Tali passaggi contengono indubbiamente le vere opinioni del grande scrittore. Nella sua lettera a Maffei, premessa alla Merope di questi, e riportata quasi la stessa opinione, sebbene con un tocco ironico. Riporterò le sue parole e spiegherò le ragioni per cui le cito. Dopo aver tradotto un brano nella Merope di Maffei, Monsieur de Voltaire aggiunge : Tous cestraits sont naïfs: tout y est convenable a ceux que vous introduisez sur la scene, et aux mœurs que vous leur donnez. Ces familiarités naturelles eussent été, à ce que je crois, bien reҫues dans Athenes; mais Paris et notre parterre veulent une autre espece de simplicité.
Sospetto che in questo e altri passaggi di quell'epistola ci sia un briciolo di derisione, eppure la forza della verità non è scalfita da queste sfumature di ridicolo. Maffei doveva rappresentare una storia greca: sicuramente gli ateniesi erano giudici competenti dei costumi greci e dell'opportunità di presentarli, almeno quanto il parterre di Parigi. Al contrario, dice Voltaire (e non posso fare a memo di ammirare il suo ragionamento), c'erano non più di diecimila cittadini ad Atene, mentre Parigi ha quasi ottocentomila abitanti, tra i quali probabilmente ci sono trentamila giudici di opere teatrali. Davvero! Ma anche ammettendo un tribunale tanto numeroso, credo che questo sia l'umico caso in cui si sia mai sostenuto che trentamila persone, che vivono circa duemila anni dopo il periodo di cui si discute, siamo da considerarsi giudici migliori degli stessi greci riguardo al modo in cui andrebbe scritta una tragedia su una storia greca.
Non mi addentrerò in una discussione sull'espèce de semplicité che il parterre di Parigi richiede, né sui modi in cui i trentamila giudici abbiamo incatenato la loro poesia - il merito principale della quale consiste, come si evince da diversi brani del nuovo commento al Corneille, nel volteggiare a dispetto di quelle catene. Un merito che, se così fosse, ridurrebbe la poesia da nobile sforzo dell'immaginazione a una puerile e disprezzabile fatica – difficile nugae con tanto di testimone! Non posso fare a meno di citare un distico, che è sempre suonato alle mie orecchie di inglese come esempio della più piatta e sciocca pignoleria, ma che Voltaire, il quale ha trattato cosi severamente nove parti su dieci delle opere di Corneille, ha scelto di difendere in Racine:

De son appartement cette porte est prochaine,
Et cette autre conduit dans celui de la reine
.

Tradotto,

Ai suoi appartamenti questa porta e vicina, L'altra conduce a quelli della regina.

Povero Shakespeare! Se tu avessi fatto in modo che Rosencrantz informasse il suo compare Guildersten sulla topografia del palazzo di Copenaghen, invece di presentarci un dialogo morale tra il principe di Danimarca e il becchino, l'illuminato pubblico di Parigi avrebbe ricevuto una seconda volta l’ordine di acclamare al tuo talento.
In conclusione di quanto ho detto metterò la mia audacia sotto la protezione del più grande genio che il nostro paese abbia mai avuto. Avrei potuto appellarmi al fatto che, avendo creato un nuovo genere di romanzo, ero libero di scegliere le regole che mi sembrassero più opportune: ma, se anche fossi riuscito a infondere genio e originalità alla mia opera, sarei più orgoglioso di aver imitato un modello tanto eccellente (per quanto sbiaditamente, debolmente e rimanendone molto lontano), che non di avere l'intero merito dell’invenzione. Il pubblico ha però onorato a sufficienza la mia opera così com é, qualunque sia il genere cui abbia inteso assegnarla.

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Il Castello di Otranto

Horace Walpole

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